Il decimo proponimento che Jonathan Edwards compose per regolare la propria vita è questo:
«Mi propongo, quando ho qualche dolore, di pensare alle sofferenze dei martiri e dell’inferno».
Sebbene George Withefield, lo descrisse come “gracile nel corpo” e altri dissero di lui che era «di costituzione debole e cagionevole» (I. Murray, Jonathan Edwards, p. 224), per la vita che condusse e da molte delle lettere che scrisse, possiamo dedurre che la sua salute fosse sufficientemente buona da consentirgli una vita del tutto normale per espletare i suoi doveri ministeriali e familiari senza particolari difficoltà.
Eppure, anche da giovane, quando la salute fisica è generalmente migliore, Edwards si soffermò a riflettere sullo scopo e la funzione del “dolore” e delle “sofferenze” nella vita del cristiano.
Nessuno è estraneo a queste realtà e, sebbene alcuni le conoscano maggiormente e le sperimentino più frequentemente e in modo più severo rispetto ad altri, non c’è nessun essere umano al mondo che ne sia esente.
Cosa si fa quando si soffre? Cosa fate voi?
Noi, che abbiamo il privilegio di vivere nel tempo in cui analgesici, antinfiammatori e antidolorifici di ogni tipo sono ampiamente disponibili e a basso costo, “quando abbiamo qualche dolore”, probabilmente, la prima cosa a cui pensiamo e facciamo è quella di prendere qualcosa che non ce lo faccia sentire o che ce lo faccia passare.
Poco importa, poi, se nel medio o nel lungo periodo, tali farmaci possano avere delle conseguenze anche gravi su alcuni organi del nostro corpo. Ciò che conta è che il dolore passi e che passi al più presto. Istantaneamente!
Alcuni, poi, pur senza rinunciare agli analgesici, sembra che trovino sollievo lamentandosi e cercando di spiegare nei minimi dettagli dov’è che fa male, quale sia l’origine del dolore, da quanto tempo, con quale ricorrenza e con quale intensità stiano soffrendo. Se a queste persone, malauguratamente, chiedete: «Come va?», siete rovinati!
Sono quelli che si concentrano sul proprio dolore, magari coltivando segretamente la convinzione che ci si possa liberare di esso o, perlomeno, attutirne l’intensità, semplicemente parlandone.
A volte, quando sentiamo i racconti di queste persone, abbiamo la sensazione che lo facciano per una strana forma di esibizionismo o, perlomeno, perché sentono di dovere attirare l’attenzione su di loro, in modo da essere confortati. Abbiate pazienza… e aiutatele!
Poi ci sono quelli che si lamentano incolpando Dio dei loro guai e dei loro dolori.
Queste persone – che spesso hanno goduto a lungo di benessere e prosperità – pensano che la sorte non debba riservare loro alcuna sofferenza e che se la Provvidenza (la Dike, il Karma o qualunque altra Entità in cui credono) desse loro quello che meritano, non dovrebbero soffrire affatto. Al massimo potrebbero ammettere che, il più tardi possibile, meriterebbero di passare dal benessere alla beatitudine senza nemmeno dover dire un “Ahi!”.
Esistono persone che, per qualche strana ragione, ritengono che la loro natura sia dissimile da quella degli altri esseri umani, che vedono ammalarsi, soffrire e morire… come è sempre accaduto da quando Adamo ed Eva trasgredirono il comandamento di Dio, in Eden!
Potrei continuare a lungo a descrivere molti altri casi che ciascuno di noi conosce o di cui ha sentito, ma gioverebbe solo a farvi sorridere.
Bisogna parlare di Jonathan Edwards e del suo decimo proponimento.
Egli, ogni volta che provava un qualunque tipo di dolore si era ripromesso di reagire diversamente. Edwards, stimolato dal dolore provato, avrebbe pensato a due tipi diversi di sofferenze, a quelle dei martiri e a quelle dei dannati.
In questo modo avrebbe fatto sorgere nella propria mente pensieri e sentimenti salutari, che noi faremo bene a considerare.
Pensare alle sofferenze dei martiri, ovvero a quelle di coloro che, come aveva appreso dalla storia antica e più recente, avevano patito per avere confessato apertamente la loro fede in Cristo e che, a causa del Vangelo, erano stati imprigionati, torturati, dati in pasto a belve feroci, bruciati vivi, annegati e vessati o soppressi in molti altri modi, avrebbe sicuramente avuto vari effetti.
Prima di tutto avrebbe suscitato nel suo cuore un senso di ammirazione verso quegli uomini e donne, giovani e anziani che preferirono rinunciare alla propria vita, piuttosto che rinnegare Cristo e la Verità. Ciò, in secondo luogo, avrebbe fatto sorgere in lui il desiderio e la preghiera di essere in grado di seguire il loro esempio, se a ciò fosse stato chiamato. Infine, sarebbe sorto nel suo cuore un senso compassione e di simpatia verso coloro che, in quel momento – magari a sua insaputa – stavano soffrendo per Cristo e ciò avrebbe sollecitato l’esercizio dell’amore verso di loro e lo avrebbe portato alla preghiera di supplica e intercessione.
Così una febbre, un mal di testa, un mal di pancia o di schiena, un dito pestato accidentalmente, un osso rotto, per l’uomo che compose quel proponimento, avrebbero avuto l’effetto di metterlo in comunione con la chiesa sofferente e, magari, lo avranno perfino portato a lodare Dio nella considerazione che, tutto sommato, la sua non era altro che una “leggera e momentanea afflizione”, non solo se paragonata alla gloria che sarebbe stata manifestata per lui, ma anche a confronto dei patimenti di altri cristiani.
Pensare alle sofferenze dei dannati avrebbe avuto un altro effetto. Prima di tutto, di qualunque entità fosse stato il suo dolore, considerando l’intensità e l’eternità dei tormenti dell’inferno, l’avrebbe considerato come poca cosa. In secondo luogo avrebbe ringraziando Dio per averlo liberato dalla morte eterna e dall’eterna infamia del “verme che non muore” e dalla “fiamma che non si spegne”. In terzo luogo, una tale riflessione avrebbe accresciuto in lui un sano timor di Dio, secondo l’insegnamento del Signore Gesù Cristo che ci ha detto di temere colui che, dopo avere ucciso, ha il potere di far perire l’anima e il corpo nella Geenna (Cfr. Mt. 10:28).
Ritengo che l’attitudine e il proponimento di Edwards sia molto più salutare di quella dei consumatori compulsivi di aspirine, nimesulide, ibuprofene, cortisonici, oppiacei e affini.
Con questo non vorrei farvi pensare che io sia contrario all’uso degli antidolorifici. Piuttosto, li considero come un dono della grazia comune di Dio.
Ma vorrei che tutti noi riflettessimo che, nel mondo di Dio, anche la sofferenza e il dolore (nostri e altrui) possono essere usati in modo positivo e che, per i cristiani, essi esistono per compiere dei buoni propositi allo scopo di distrarci dalle vanità mondane, di farci simpatizzare con coloro che hanno molto meno di noi, di accrescere il nostro senso di gratitudine verso il Signore e per far sì che lo amiamo e riveriamo di più.
Al prossimo mal di testa, alla prossima malattia – sia essa una cosa leggera o seria – mentre prenderete tutte le giuste precauzioni e userete tutti i mezzi legittimi chiedendo a Dio di benedirli, non dimenticare di pensare al decimo proponimento di Jonathan Edwards che è:
«Mi propongo, quando ho qualche dolore, di pensare alle sofferenze dei martiri e dell’inferno».