di Charles H. Spurgeon
Le visite che ci fa la malattia sono misteriose. Quando Dio si sta compiacendo di usare un uomo per la sua gloria è strano che egli lo tolga di mezzo e sospenda la sua utilità. La cosa deve senz’altro essere giusta, ma la ragione per cui accade non la si trova in superficie.
Al peccatore che contamina la società in cui vive con ogni atto che compie, spesso, è concesso di vivere per anni e anni con vigore immutato, lasciando che infetti tutti quelli che vengono in contatto con lui. Non c’è malattia che lo rimuova nemmeno per una sola ora dal suo ministero mortale. È sempre lì, alla sua postazione, pieno di energie per compiere la propria missione distruttiva.
Com’è possibile che un cuore desideroso di vedere il benessere degli uomini e la gloria di Dio debba essere ostacolato dalla malattia e limitato nella sua maggiore utilità da attacchi di una dolorosa infermità? Possiamo porre la domanda (fintanto che essa non diviene una mormorazione), ma chi potrà darci la risposta?
Quando un battaglione di soldati viene fermato da una raffica di pallottole che producono dolorose ferite da ogni parte, comprendiamo che questo è solo uno dei normali eventi della guerra; ma se un comandante dovesse fermare le sue truppe nel bel mezzo della battaglia e agire direttamente in modo da mettere fuori combattimento alcuni dei suoi guerrieri più zelanti, non sarà arduo riuscire a comprenderne i motivi? Per quanto ci riguarda è una gran cosa che la nostra felicità non dipenda dalla nostra comprensione della provvidenza di Dio. Noi possiamo credere anche quando non siamo in grado di dare delle spiegazioni e preferiamo che migliaia di misteri rimangano irrisolti piuttosto che tollerare un solo dubbio sulla sapienza e sulla bontà del nostro Padre celeste. La malattia dolorosa che mette il ministro hors de combat [fuori combattimento] proprio quando i suoi servigi sono maggiormente necessari, nel mezzo del conflitto, è un gentile messaggero che procede dal Dio d’amore, ma come tutto ciò sia possibile, non ci è dato saperlo.
Fermiamoci un momento a considerarlo. Non è forse bene per noi essere sorpresi e perplessi e, in tal modo, costretti a esercitare la nostra fede? Sarebbe davvero bene per noi avere tutte le cose talmente ordinate da Dio in modo da poterne vedere chiaramente la ragione per ogni dettaglio? Il piano dell’amore di Dio potrebbe mai essere considerato davvero infinitamente e supremamente saggio se le sue dimensioni potessero essere misurate dalle nostre limitate capacità di ragionamento? E non saremmo tanto stupidi e presuntuosi come dei bambini viziati dalle cure eccessive se tutte le cose fossero ordinate secondo il nostro giudizio di ciò che è giusto e opportuno?
Oh, quanto è buono essere tratti fuori dai nostri abissi e lasciati a nuotare nelle dolci acque dell’amore onnipotente! Sappiamo quanto sia benedetta l’esperienza di chi è stato costretto a cessare di confidare in se stesso ed è giunto ad arrendere tanto i propri desideri quanto i propri giudizi e che, adesso, riposa passivamente nelle mani di Dio.
È di massima importanza per noi essere mantenuti umili. Eccedere nell’autostima e nella considerazione della propria importanza è un odioso inganno, eppure è uno di quelli in cui inciampiamo spesso, tanto facilmente quanto la crescita delle erbacce sui cumuli di letame. Noi non possiamo essere usati da Dio se vagheggiamo di ottenere una posizione di grandezza. Ci riteniamo quasi indispensabili per la chiesa; colonne della causa e fondamenta del tempio di Dio!
Siamo delle nullità, ma è chiaro che la pensiamo in modo assai diverso poiché, non appena veniamo messi in panchina, cominciamo a chiederci: «Come farà a proseguire l’opera senza di me? Il moscerino sulla ruota del furgone postale, allo stesso modo, potrebbe chiedersi: «Come si potrà consegnare la posta senza di me?».
Uomini molto migliori di noi sono andati a riposare nella loro tomba prima che l’opera del Signore fosse portata a uno stadio di stabilità, e noi ci permettiamo di arrabbiarci e agitarci perché, per un po’ di tempo dobbiamo giacere in un letto di sofferenza? Se fossimo messi da parte soltanto quando è chiaro che si può fare a meno di noi, ciò non potrebbe costituire alcuna sfida al nostro orgoglio, ma l’indebolimento della nostra forza nell’esatto momento in cui la nostra presenza sembra essere assolutamente necessaria è il modo migliore per mostrarci che noi non siamo essenziali per l’opera di Dio e che perfino quando ci sarebbe bisogno di noi, egli può benissimo farne a meno. Se dovesse essere proprio questa la lezione da imparare, allora la severità della scuola si potrà sopportare facilmente, poiché è assai desiderabile che il nostro ego sia mantenuto sgonfio e che soltanto il Signore sia magnificato.
Oltre a ciò, non potrebbe darsi che il nostro Signore misericordioso abbia in mente di onorarci doppiamente, quando manda il doppio delle prove? Abbondare nelle opere è certamente un buon grado, ma essere pazienti nelle afflizioni non è certo da meno. Alcuni credenti sono stati eccellenti nel servizio attivo, ma sono stati poco provati in quest’altro che è quello ugualmente onorevole della sopportazione paziente e sottomessa. Seppure costoro possono essere dei veterani nell’operosità, sono poco più che delle reclute nella pratica della pazienza e, in questo senso non sono che delle persone sviluppate solo a metà, sebbene si trovino nella età di cristiani adulti. Non potrebbe darsi che il Signore abbia dei piani particolari per alcuni dei suoi servitori e che intenda perfezionarli in entrambi questi aspetti della somiglianza a Cristo?
Sembra che non ci sia alcuna ragione naturale per la quale le due mani di una persona non debbano avere la medesima funzionalità, ma sono pochi quelli che divengono ambidestri, poiché la mano sinistra non viene sufficientemente esercitata. I mancini, nella Scrittura erano uomini che, in effetti, era come se possedessero due mani destre, poiché erano abili a utilizzarle con la medesima destrezza. La pazienza è la mano sinistra della fede, e se il Signore richiede a un Eud di colpire un Eglon, oppure a un beniaminita di lanciare delle pietre con la fionda per colpire un capello “senza fallire il colpo”, potrebbe darsi che questi debba esercitare la sua pazienza almeno quanto la sua industriosità. Se così fosse, vorremmo mai perdere il favore divino? Molto più saggio sarebbe ricordare che questa doppia linea di combattimento richiede una doppia porzione di grazia e implica altrettanta responsabilità.
Un cambiamento nel modo delle nostre devozioni personali può essere anche di grande beneficio e liberarci da mali che ci sono sconosciuti, ma che sono anche gravi. L’impaccio provocato da molti servizi, come un’escrescenza sulla corteccia di un albero da frutto, può fare molto danno e, per questa ragione, il Padre, che è il grande agricoltore, userà gli strumenti più affilati per rimuovere il dannoso parassita.
I grandi marciatori ci dicono che si stancano molto presto quando il terreno è pianeggiante, ma quando scalano le montagne o discendono nelle vallate, siccome vengono usati muscoli che sono più freschi, così come per il cambiamento della natura dello scenario, la loro marcia procede con minore fatica. I pellegrini diretti alla città celeste, probabilmente potranno confermare questa testimonianza.
L’esercizio continuo di una singola virtù, che è richiesto da particolari circostanze, è assolutamente lodevole, ma se altre grazie si lasciano giacere dormienti, l’anima potrà divenire deforme, e si potrebbe tendere a esagerare il bene sebbene esso sia macchiato dal male. Le attività di devozione possono essere lo strumento utile a raffinare una larga parte della nostra natura, ma esistono altre aree della nostra natura redenta, che sono altrettanto preziose, che rimangono al di fuori della loro portata e non cambiano affatto.
Le piogge della prima e dell’ultima stagione possono essere necessarie per il grano, l’orzo e il lino, ma gli alberi che producono la fragrante gomma d’Arabia devono prima lacrimare con la rugiada notturna. Il viaggiatore sulla terra ferma vede le opere di Dio tutte intorno a sé ed è colto da sacra ammirazione, ma non avrà portato a compimento la sua istruzione fintanto che non avrà sperimentato l’altro elemento: «Quelli che solcano il mare e trafficano sulle grandi acque, vedono le opere del Signore e le sue meraviglie negli abissi marini» (Salmi 107:23-24).
È bene per l’uomo portare il giogo del servizio, ma egli non andrà in perdita quando lo scambierà con il giogo della sofferenza. Non potrebbe darsi che la severa disciplina sia la parte spettante ad alcuni in modo che essi siano qualificati per svolgere il loro ministero di sotto-pastori? Come potremmo mai parlare con autorevolezza di consolazione di cose e situazioni che non abbiamo mai conosciuto? La vita completa del pastore sarà la personificazione delle vite dei membri della sua congregazione, ed essi si rivolgeranno alla sua predicazione come la gente fa coi Salmi di Davide: per riflettersi e vedere se stessi come in uno specchio. I loro bisogni saranno la ragione della sua sofferenza.
Come il Signore stesso ottenne il perfetto equipaggiamento per compiere la sua opera necessaria mediante le sofferenze, così dev’essere per coloro che sono chiamati a seguirlo nel fasciare i cuori rotti e dare libertà ai prigionieri.
Nelle nostre chiese ci sono anime che attraversano esperienze di tali profonde oscurità alle quali non potremo mai essere in grado di ministrare fintanto che non avremo scandagliato l’abisso in cui i flutti dell’Eterno scorrono sulla nostra testa. Se così stanno le cose – e noi siamo certi che è così – allora dovremo accogliere con cordiale gratitudine tutto ciò che ci renderà canali più adatti a diffondere la benedizione. Per amore degli eletti, sarà una gioia sopportare ogni cosa e condividere una parte di «quel che manca alle afflizioni di Cristo» e di compierlo nella nostra carne «a favore del suo corpo che è la chiesa». (Col. 1:24).
Potrebbe darsi che ci siano anche altre e più umilianti cause per le nostre afflizioni fisiche! Potrebbe darsi che il Signore veda in noi qualcosa che lo addolora e che scelga di usare la sua verga. «Fammi sapere perché sei in contesa con me» (Gb. 10:2) dovrebbe essere la pronta richiesta del cuore del credente. «Che ho fatto ora?» (1 Sam. 17:29).
Non potrà mai essere superfluo umiliarci ed esaminarci, poiché anche se camminiamo in modo integro e possiamo alzare la nostra faccia senza temere di essere svergognati per aver commesso dei grandi peccati, ci saranno sempre i nostri falli e le nostre omissioni che dovrebbero farci arrossire. Quanto avremmo dovuto pregare di più in modo fervente! Con quanta maggiore unzione avremmo dovuto predicare! Qui c’è posto per una infinita serie di confessioni al cospetto del Signore.
Tuttavia non è bene attribuire ogni malattia e prova a qualche peccato in particolare, come se ci trovassimo sotto la legge o se potessimo essere puniti ancora per i peccati che Gesù ha portato nel proprio corpo sulla croce. Sarebbe ingeneroso nei confronti di altri se noi considerassimo colui che sta soffrendo grandemente come il più grande dei peccatori. Tutti sanno che sarebbe ingiusto giudicare così il nostro fratello cristiano, e pertanto sarebbe altrettanto poco saggio se applicassimo una regola talmente erronea a noi stessi per condannarci in modo morboso, quando Dio non ci condanna affatto.
Proprio adesso, mentre l’angoscia ci riempie il cuore, e lo spirito è ferito, dolorante e in travaglio, non è il momento migliore per formare un giudizio sulla condizione nostra, o di qualunque altro. Facciamo in modo che le nostre facoltà giudicanti si attengano al buon senso, e gettiamoci con le lacrime di una confessione amorevole nel seno del Padre, e guardandolo in faccia crediamo che egli ci ama con tutto il suo cuore infinito. «Se pure mi uccidesse io continuerei a sperare» sia la nostra unica determinazione e possa lo Spirito eterno operare in noi la perfetta serenità nell’accettazione dell’intera volontà di Dio, qualunque essa sia
C.H. Spurgeon