Il ventiduesimo dei settanta proponimenti di Jonathan Edwards è:
“Mi propongo di adoperarmi per ottenere quanta più felicità sia possibile nell’altro mondo, con tutta la potenza, la forza, il vigore, l’impeto e anche la violenza di cui sono capace e che posso esercitare secondo tutti i modi concepibili”.
Questo proponimento riguarda un bisogno essenziale di ogni essere umano. La ricerca fondamentale nella quale ciascuno di noi è impegnato, in modo più o meno consapevole: quella della felicità.
Nella dichiarazione d’indipendenza degli Stati Uniti d’America del 4 luglio del 1776, se ne parla come di un diritto fondamentale dell’uomo. Io non saprei dire se questo sia davvero un diritto, ma di sicuro è un’aspirazione per la quale c’è gente disposta a fare di tutto pur di conoscerla o ottenerla.
A questo proposito possiamo pensare a una una notizia di cronaca che, recentemente, ha scosso l’intera nazione. Mi riferisco allo shock suscitato dalle dichiarazioni dell’assassino reo confesso dei due giovani di Lecce, che avrebbe detto: «Li ho uccisi perché erano troppo felici». Nella mente criminale e malata di quell’uomo doveva esserci il pensiero che privare qualcuno della felicità di cui godeva avrebbe aumentato la sua o, perlomeno, che avrebbe diminuito la sua infelicità. Quasi che la felicità, come se fosse un liquido, possa essere versata da un cuore a un altro, e che, essendone privi, ci si possa appropriare di quella altrui. Che follia!
Il proponimento di Edwards a proposito della sua “ricerca della felicità” ha un altissimo valore, ci fa riflettere sul questo tema e sollecita in noi alcune domande:
Prima di tutto ci spinge a rispondere all’interrogativo: cos’è la felicità di cui parla Edwards?
La felicità è uno stato o una condizione di perfetto appagamento e di assoluto benessere.
È felice colui che ha tutto ciò che desidera oppure che non desidera nulla di più di ciò che ha e che gode perfettamente di ciò che possiede.
Per questa ragione non può essere felice colui che, pur avendo tanto desidera di più di ciò che ha o vuole ciò che non ha. Né può esserlo chi, pur avendo tutto ciò che desidera non riesce a goderne a causa di ostacoli interni o esterni che glielo impediscono. Per questo, su questa terra, la felicità è una condizione molto rara e facilmente deteriorabile.
Dio, invece è perfettamente ed eternamente felice! Ciò è chiaramente attestato in 1 Timoteo 1:11. E felice è l’uomo che vive in comunione con Dio e in una condizione di perfetta riconciliazione con il suo Creatore (Sal. 32:1-2).
Edwards, parlando della sua ricerca della felicità non intende di certo le gioie che Dio, nella sua generosità e per la sua “grazia comune”, ha messo a disposizione di ogni tipo di persona, anche gli coloro che non lo conoscono e non lo amano affatto.
Questo genere di piaceri, che pure sono tanti, che possono anche essere grandi e che ad alcuni è concesso di goderne per molto tempo (Lc. 12:19; 16:19) non erano certo quelli a cui aspirava Edwards. Egli, piuttosto, nel suo proponimento, si riferisce esplicitamente alla “felicità nell’altro mondo”. Ovvero a una gioia santa, spirituale, divina; a quella che non teme di dover passare attraverso grandi sofferenze e che, anzi, seppure dovesse essere necessario patire le più grandi sofferenze nel ricercarla, ciò non farebbe che renderla ancora più dolce e preziosa (si veda Eb. 12:2b).
In secondo luogo, dobbiamo chiederci: è legittimo per un cristiano desiderare la felicità tanto intensamente?
Questa domanda ci viene sollecitata dal numero e dalla forza dei termini usati da Edwards per descrivere la sua “ricerca della felicità”:
«… con tutta la potenza, la forza, il vigore, l’impeto e anche la violenza di cui sono capace e che posso esercitare secondo tutti i modi concepibili».
Non è eccessivo? Una tale dichiarazione sembra indicarci che fosse questa l’unica attività che egli si prefiggeva di svolgere, e che “essere estremamente felice nell’altro mondo” costituisse lo scopo della sua stessa esistenza.
Se “tutta la forza, il vigore, l’impeto, ecc.” erano versati nella ricerca di questa felicità, cosa rimaneva per le altre cose?
Eppure, il modo in cui Jonathan Edwards cercava di ottenere questo scopo e il modo in cui visse ci dimostrano che egli ricercava questa felicità proprio mentre si dedicava ad adempiere tutti i suoi doveri in questo mondo (personali, familiari, ministeriali e sociali). In altre parole, era questo il modo in cui si proponeva di ubbidire ai comandamenti del Signore ovvero di amare Dio con tutto il cuore, l’anima, la mente e la forza e il prossimo come se stesso. Per il cristiano non dev’esserci nulla di privato, egoistico o edonistico nella ricerca della felicità, egli ricerca prioritariamente la comunione con Dio, con tutti quelli che sono amati da Dio e con tutti quelli che lo amano.
Infine, dobbiamo chiederci: quale dev’essere il nostro atteggiamento riguardo alla ricerca di questa felicità?
La risposta sarà che non solo è legittimo indirizzare tutte le nostre forze in questo senso, ma anche che è nostro dovere farlo.
Se disperdiamo le nostre energie non possiamo che sperimentare l’infelicità poiché spenderemo il nostro denaro per ciò che non è pane e il frutto delle nostre fatiche per ciò che non sazia (Is. 55:2).
Dobbiamo vivere, quindi, per ricercare la maggiore quantità possibile di questa felicità santa, pura e condivisa con Dio e il prossimo.
Quello che il Signore Gesù ci ha insegnato a tal proposito è di non accontentarci del poco (Mt. 6:19-21). Abbiamo poco tempo per accumulare tesori in cielo e per farci molti amici con “le ricchezze ingiuste”. Nel mondo che verrà ci saranno gradi diversi di beatitudine e di felicità e questi saranno determinati dalla quantità di oro, argento e pietre di valore che resisteranno al fuoco purificatore del tribunale di Cristo (1 Co. 3:12-15; 2 Co. 5:10).
Quando vediamo la bramosia con cui una persona avara accumula denaro e si attacca a ogni centesimo ingannando se stessa e pensando che «è dall’abbondanza dei beni che uno possiede che egli ha la sua vita» (Lc. 12:15), impariamo a coltivare un sano disprezzo nei confronti delle cose “eccelse agli occhi degli uomini” (Cfr. Lc. 16:15) e impegniamoci ancora di più ad accumulare beni spirituali che, mediante la grazia di Dio e in virtù del sangue purificatore di Cristo e della sua intercessione, risulteranno per la nostra salvezza e per la nostra eterna beatitudine.
Chi ama il bene davvero, non può desiderarlo debolmente.
Chi ha gustato la vera felicità non può accontentarsi di averne una magra porzione.