Caltanissetta 27 febbraio 2020
Lettera pastorale
Cari fratelli e care sorelle,
è doveroso da parte mia diffondere informazione corretta (scevra da valutazioni personali… che ciascuno di noi è liberissimo di fare) e di offrirvi una prospettiva che sia biblica sulla circostanza “critica” che sta vivendo la nostra nazione e che, verosimilmente, presto o tardi, si avvicinerà ulteriormente anche a noi.
Abbiamo cominciato a interessarci al decorso dell’epidemia di Covid-19 quando ci era molto lontana perché confinata in Cina, nella città di Wuhan, pregando e intercedendo per quella città e per i nostri fratelli di quei luoghi. Adesso che sappiamo di cittadine isolate, servizi (anche religiosi) sospesi in varie regioni del Nord, di un certo numero di persone infettate, di alcuni morti e di altri che (grazie a Dio) sono guariti anche in Italia, è naturale che sorgano certe domande su come dovremmo comportarci e cosa fare, soprattutto quando tutto (o quasi) è affidato alla nostra discrezionalità.
È ovvio che noi siamo particolarmente vulnerabili perché il nostro livello di socialità è alto e frequente. Ci riuniamo spesso, ci salutiamo calorosamente stringendoci la mano o baciandoci sulle guance, celebriamo la cena del Signore prendendo lo stesso pane e vino (anche se per quest’ultimo ormai da anni, proprio per ragioni igieniche, usiamo i bicchierini).
Le situazioni critiche hanno un duplice effetto. Il primo è che ci impongono di adattarci e di modificare comportamenti che, in altri momenti, erano assolutamente normali, legittimi e appropriati. Questa è una questione di sopravvivenza. La crudele legge della “selezione naturale” è: “chi non si adatta si estingue”! È crudele, ma è molto vera. Il secondo effetto è quello che ci riguarda più da vicino e che è molto più serio. Infatti, le crisi ci forniscono l’occasione per fare emergere quello che normalmente non è visibile perché sedimentato, seppur presente, nel nostro cuore. Dio disse a Israele: «Ricordati di tutto il cammino che il Signore, il tuo Dio, ti ha fatto fare in questi quarant’anni nel deserto per umiliarti e metterti alla prova, per sapere quello che avevi nel cuore e se tu avresti osservato o no i suoi comandamenti.» (Deu. 8:2). Le crisi, soprattuto quelle prolungate e severe, quelle che ci mettono in pericolo di vita, ci danno chiarezza intorno a noi stessi, ai nostri valori e alle nostre priorità. Non Dio – che è onnisciente – ma noi stessi impariamo a conoscere cosa c’è davvero nel nostro cuore.
Vorrei adesso fornirvi alcuni principi e mostrarvi come essi possono e devono essere applicati alla crisi presente, non solo al momento, ma anche se, nella provvidenza di Dio, la situazione dovesse peggiorare e divenire ancora più critica.
- La provvidenza. Se siamo davvero dei cristiani e se la nostra fede è autenticamente riformata, noi abbiamo riposto la nostra fiducia nel Dio sovrano che conta i capelli del nostro capo, riveste e nutre piante e animali, che senza il suo placet non lascia che nemmeno un passero cada, e che ci ha promesso e dimostrato (vedi il caso di Giuseppe, di Giobbe, della morte di Cristo, e molti altri) che «tutte le cose cooperano al bene di quelli che amano Dio» (Ro. 8:28). Chi ha creduto davvero a queste cose, ha detto cose come: «Il Signore è la mia luce e la mia salvezza; di chi temerò? Il Signore è il baluardo della mia vita; di chi avrò paura? Se un esercito si accampasse contro di me, il mio cuore non avrebbe paura; se infuriasse la battaglia contro di me, anche allora sarei fiducioso. Poiché egli mi nasconderà nella sua tenda in giorno di sventura, mi custodirà nel luogo più segreto della sua dimora, mi porterà in alto sopra una roccia. Spera nel Signore! Sii forte, il tuo cuore si rinfranchi; sì, spera nel Signore!» (Salmi 27:1, 3, 5, 14). Questo è il tempo per un ripasso e una verifica!
- Il libero agire. Se abbiamo ben compreso la dottrina della provvidenza saremo coscienziosi nell’uso dei mezzi e riconosceremo che nel mondo agiscono anche le “cause seconde” ovvero che a ciascuno di noi è concesso un certo grado di libertà per la quale ciascuno è responsabile delle azioni che compie. Tali azioni possono risultare per il bene e per il male proprio e del prossimo e a chi le compie saranno imputati gli effetti prodotti. Sebbene nulla sia al di fuori del controllo di Dio, le azioni dei fratelli di Giuseppe, dei predoni che derubarono Giobbe e degli esecutori materiali della crocifissione di Cristo, al cospetto di Dio, sono peccati la cui responsabilità ricadde solo su chi li compì. La dottrina cristiana della provvidenza è molto lontana dal fatalismo pagano o islamico che, in pratica, azzerano il valore dell’azione umana. Questo legittima l’uso delle precauzioni e, nel nostro caso, della corretta profilassi allo scopo di evitare e/o di contenere il contagio.
- La doppia cittadinanza. Come cristiani dobbiamo anche riconoscere di possedere una doppia cittadinanza. Siamo cittadini italiani e, in quanto tali, ci atteniamo e ci sentiamo obbligati a “dare a Cesare quello che è di Cesare” ubbidendo alle leggi e alle direttive che vengono imposte o suggerite per il bene pubblico. Siamo anche cittadini “celesti” (Fil. 3:20) e, qualora una legge umana dovesse contrastare con i nostri doveri cristiani risponderemo che “bisogna ubbidire a Dio anziché agli uomini” (Cfr. At. 4:19). Questo riguarda il modo in cui dobbiamo considerare le indicazioni, le direttive e le ordinanze che provengono dal governo nazionale e dagli amministratori locali.
- L’informazione. La caratteristica dei residenti di Atene del tempo di Paolo che «non passavano il loro tempo in altro modo che a dire o ad ascoltare novità» (At. 17:21) oggi è estesa alla popolazione globale. E la medesima confusione che impediva loro di discernere il vero dal falso regna anche oggi. La vera sfida del nostro tempo è la capacità di non naufragare nello sterminato oceano di notizie e di opinioni che provengono da fonti più o meno autorevoli e del fatto che, francamente, per ogni argomento, vengono gridate opinioni che risultano dire “tutto e il contrario di tutto”. Un popolo viene tenuto all’oscuro della verità o con il monopolio dell’informazione o con l’eccesso di informazione. E ciò, soprattutto perché nell’Italia contemporanea la percentuale di analfabeti funzionali è probabilmente maggiore di quella dei veri analfabeti dell’epoca preunitaria. Questo riguarda il modo in cui riusciamo a filtrare le notizie e a valutarne l’autenticità o la falsità.
Adesso cercherò di applicare questi principi alla nostra situazione.
Prima di tutto vorrei farvi riflettere sul fatto che preoccuparsi è legittimo, ma che cedere all’angoscia non lo è. L’angoscia è quello che il Signore Gesù Cristo ha definito μερίμναις βιωτικαῖς e che viene tradotto con “ansiose preoccupazioni di questa vita” che equivale a una cura smodata di tutto ciò che riguarda la nostra vita biologica, la sua preservazione e perfino la sua salute e sostentamento. Il virus – come ha detto ieri Umberto Galimberti – ci procura angoscia perché non lo vediamo, e un nemico invisibile suscita sempre reazioni irrazionali. Eppure noi crediamo nell’esistenza di molti “nemici invisibili”. Ecco, lasciatemi dire che lo stesso Dio che può essere invocato affinché ci liberi dal Maligno, può essere supplicato affinché ci liberi dal contagio. Detto questo cosa significa, in soldoni, preoccuparsi senza cedere all’angoscia? Significa rimanere sereni e non abbandonarsi ad azioni iperprotettive (segregazione, sospetti, abitudini compulsive…) mentre ci si impegna a:
- Curare la propria igiene e seguire le direttive date dal Ministero della Salute (che ho condiviso già il 23 febbraio nel gruppo Telegram).
- Evitare e limitare al massimo il contatto fisico (evitando i baci, gli abbracci e altre effusioni che, pur essendo importanti, nulla dicono circa il reale amore e affetto cristiani).
- Se già affetti da patologie, anche lievi, curarsi a casa fino al pieno recupero.
- Tornando a casa, seguire un protocollo di igiene personale maggiormente scrupoloso e ciò a prescindere se si è venuti a conoscenza di avere avuto contatti con persone provenienti da zone considerate “a rischio”.
- Evitare di recarsi – se non è strettamente necessario – in luoghi dove potrebbe essere in corso una diffusione dell’epidemia.
- Se siamo a conoscenza di persone potenzialmente infette, cercare di responsabilizzarle e di far loro adempiere almeno le richieste delle autorità competenti (questo è puro civismo).
- Se abbiamo il minimo dubbio che potremmo essere causa di infezione nei confronti di altri evitare di poter divenire vettori del contagio mettendoci in quarantena volontaria.
Bisogna anche rispondere alla domanda: «Dobbiamo ubbidire all’ordinanza che vieta le riunioni religiose? Lo Stato ha il diritto di imporci di non riunirci in chiesa?» La risposta a questa domanda è: «Sì, dobbiamo ubbidire». La ragione principale è che tale ordinanza è fatta nell’interesse collettivo (e, nel caso specifico, per tutelare i più deboli che sono quelli che hanno la peggio in questa epidemia). Non si tratta di una disposizione contro “i cristiani in quanto tali” e che rientra in uno di quei casi in cui è dovuto riconoscere che l’autorità costituita ha il diritto di imporre la forza della legge.
Anche noi che abbiamo una concezione alta del giorno del Signore, in situazioni di allerta meteo, abbiamo cancellato il culto domenicale perché sarebbe stato rischioso giungere al locale di culto. Inoltre, in casi eccezionali, possiamo osservare il giorno del Signore anche nelle nostre case, in famiglia o, perfino, ricorrere allo streaming fatto dalla nostra o da altre chiese.
Considerando che questa situazione è destinata a perdurare e che, per molti versi, saremo sempre esposti a pericoli di ogni genere, tutto ciò dovrebbe farci riflettere a quanto siamo disposti a rinunciare per evitare dei danni ad altri e a quanto siamo disposti a rischiare per continuare a fare il nostro dovere confidando in Dio.
La vera domanda da porre a noi stessi, infatti, è: «Coronavirus a parte, quanto sono attaccato alla mia vita, ai miei programmi, ai miei interessi e ai miei beni? Se si trattasse di dovere rispondere a un rischio della vita per una persecuzione, persevererei nel fare quello che ho sempre fatto – continuando ad andare in chiesa, a pregare e a confessare Cristo – o troverei mille “buone” ragioni per fare diversamente al fine di evitare la sofferenza?
Vi confesso che la preoccupazione maggiore – per quanto mi riguarda – non è quella di dover predicare ai banchi vuoti per una per due o per molte domeniche… ma proprio pensare a come io e voi reagiremmo se continuare a confessare la nostra fede dovesse diventare estremamente pericoloso e costoso.
Lasciate che vi dica, con grande libertà, che il mio timore non è come sarà il culto nel tempo del Coronavirus, ma di come sarà nel tempo in cui il reale tasso di secolarizzazione sarà costretto ad emergere. Questo è il virus (letteralmente: “il male”) che mi preoccupa di più.
Vostro, in Cristo,
Past. Nazzareno Ulfo