Sarà perché sono siciliano, sarà perché è stata la prima opera lirica che ho cercato di studiare più a fondo, sarà per qualche altra ragione, ma Cavalleria Rusticana è tra quelle che ascolto e riascolto più spesso e che, quando ne ho la possibilità, vado a vedere, com’è accaduto lo scorso 13 agosto al teatro greco di Tindari (ME) dove ho ascoltato con immenso piacere un ottimo Angelo Villari nel ruolo di Turiddu.
Ma chi è il Turiddu raccontato da Verga e messo in scena da Pietro Mascagni?
La mia tesi è che Turiddu non è un soltanto un siciliano ottocentesco, ultimo testimone di una cultura della vergogna e dell’onore ormai definitivamente tramontata o una figura alla quale si può guardare con nostalgia o disprezzo, cercando argomenti per assolverlo o condannarlo. Piuttosto, Turiddu è un vero italiano, uno di quelli ben descritti da Giordano Bruno Guerri nella sua opera Antistoria degli italiani, il cui carattere è il risultato della mescolanza della cultura romana antica con le caratteristiche mutuate dai barbari e il tutto cucinato al fuoco lento dei secoli della storia del cattolicesimo romano (G.B. Guerri dice “di cristianesimo”, ma in realtà si riferisce proprio al cattolicesimo) che ha prodotto uomini e donne con queste caratteristiche:
“Individualismo sfrenato, mancanza di rispetto della cosa pubblica, incapacità di organizzazione e soprattutto una tendenza a abbandonare qualunque tipo di ragionamento analitico-deduttivo per un pensiero frammentario e superstizioso, spinto ben oltre i confini di ogni logica”. (p. 11)
Turiddu, approfitta dell’amore di Santuzza e abusa di lei, poi commette adulterio con Lola. Quando viene scoperto prima nega e poi, addirittura, passa al contrattacco, tenendo il punto perché, dice: «Pentirsi è vano dopo l’offesa», salvo, poi, riconoscere con compare Alfio la propria colpa dicendo: «Lo so che il torto è mio…» e preoccuparsi, in caso di morte in duello, del futuro di Santuzza, chiedendo alla propria madre: «Se non tornassi… fate da madre a Santa». P
In tutto questo, però, emerge una forma di religiosità superstiziosa e individualistica poiché, nella serenata d’apertura, parla del Paradiso (dove non sarebbe disposto ad entrare, se non dovesse trovarci Lola, il suo amore idolatra), in un dialogo con Santuzza menziona il nome di Dio, imprecando, e poi, in preda al rimorso, s’inginocchia chiedendo la benedizione e le preghiere della madre, prima di correre incontro alla morte.
Tutto questo accade nel giorno di una Pasqua, che, piuttosto che per la risurrezione di Cristo, sarà segnata dal grido di: «Hanno ammazzatu cumpari Turiddu!»
A quel grido, non si può rimanere indifferenti e, nonostante tutto, un fremito di compassione e di dolore percorre la schiena mentre le note tragiche della chiusa si succedono rapidamente, crescono nel volume e l’opera si conclude.
Quante persone, oggi, sono come Turiddu?
Vivono la propria vita in aperta contraddizione ai principi cristiani, nella ricerca idolatra del piacere personale e nel disprezzo della legge di Dio. Però Dio, il Paradiso e la preghiera continuano a far parte della loro “cultura”. Non perdonano i presunti errori altrui, ma pretendono che i propri debiti siano rimessi. Pur consapevoli della propria colpevolezza, sperano ugualmente di ricevere aiuto dall’alto e di farla franca, nonostante tutto.
Noi piangiamo la morte di Turiddu, ma preferiremmo vederlo veramente pentito, umiliato e genuflesso davanti alla croce di Cristo, trasformato nel carattere, riparare con umiltà al torto fatto a compare Alfio, a Lola, a Santa e vivere una vita di sobrietà, di temperanza e di santità.
L’Evangelo ci insegna che c’è salvezza per Turiddu, ma questa salvezza non potrà ottenerla spargendo il proprio sangue colpevole, ma a causa del sangue immacolato e prezioso di Cristo versato alla croce del Golgotha e per la fede nella sua risurrezione dai morti.
Turiddu è uno di noi quanto al peccato… ma Cristo è il salvatore dei peccatori italiani che si ravvedono e credono in lui.