Quando non potè più tenerlo nascosto, prese un canestro fatto di giunchi, lo spalmò di bitume e di pece, vi pose dentro il bambino, e lo mise nel canneto sulla riva del Fiume. La sorella del bambino se ne stava a una certa distanza, per vedere quello che gli sarebbe successo. La figlia del faraone scese al Fiume per fare il bagno, e le sue ancelle passeggiavano lungo la riva del Fiume. Vide il canestro nel canneto e mandò la sua cameriera a prenderlo. Lo aprì e vide il bambino: ed ecco, il piccino piangeva; ne ebbe compassione e disse: «Questo è uno dei figli degli Ebrei». Allora la sorella del bambino disse alla figlia del faraone: «Devo andare a chiamarti una balia tra le donne ebree che allatti questo bambino?». La figlia del faraone le rispose: «Va’». E la fanciulla andò a chiamare la madre del bambino. La figlia del faraone le disse: «Porta con te questo bambino, allattalo e io ti darò un salario». Quella donna prese il bambino e lo allattò. Esodo 2:2-9
Molto spesso all’espressione “atto di fede” si associa un’azione, scelta o gesto il cui esito è talmente incerto da scoraggiare chiunque si affidi esclusivamente alla propria razionalità umana per realizzarlo. Al termine “fede”, infatti, è intrinsecamente connesso il concetto di fiducia nel compimento di un piano superiore che non può ancora essere conosciuto o nel raggiungimento di un traguardo che non può essere visto con chiarezza.
Il passo di Esodo che racconta del ritrovamento certamente miracoloso del piccolo Mosè, mostra senza dubbio un esempio concreto di fede. Lo scrittore della Lettera agli Ebrei non si priva dal citare i genitori di Mosè per indicare un efficace modello di fede, fiducia o speranza inteso in questi termini e spesso l’atto di Iochebed, la madre di Mosè, è considerato l’emblema della fede che mette da parte la ragione, nella certezza che il Signore provvederà ad uno specifico bisogno.
Benché la fede in Dio sia certamente dotata di questo genere di fiducia, nel leggere e meditare questo passo mi sono chiesto se effettivamente si possa descrivere la fede di Iochebed in questi termini prettamente “mistici”, intesi nel senso etimologico del termine, ovvero che trascendono dal mondo concreto e sconfinano nel mistero, o se la fede dimostrata dalla donna sia in realtà molto più “pratica” di quello che ad una prima lettura possa sembrare.
La storia dell’“abbandono” e del ritrovamento di Mosè è stata di ispirazione per molti artisti, scrittori e sceneggiatori e non è raro imbattersi in immagini che ritraggono la cesta intrisa di pece in balia delle onde del fiume, approdare miracolosamente nel luogo in cui la figlia di Faraone era solita fare il bagno; come se fosse necessario aumentare la drammaticità dell’evento per sottolinearne l’aspetto soprannaturale.
Leggendo il testo di Esodo 2 con più attenzione, però, ho fatto delle considerazioni che vorrei condividere con voi:
– “quando non poté più tenerlo nascosto”: il gesto di Iochebed è dettato dalla necessità. L’editto del faraone aveva reso impossibile tenere il bimbo per un tempo maggiore rispetto a quello che era già trascorso dalla sua nascita, per questo era necessario un gesto, estremo in questo caso, per tentare di salvargli la vita.
– “prese un canestro fatto di giunchi, lo spalmò di bitume e di pece, vi pose dentro il bambino”: Iochebed non abbandona il suo bambino alla provvidenza di Dio, ma fa di tutto per “limitare i danni”. Non lo lascia in una grotta, non lo depone alla porta del palazzo di Faraone; anzi, si industria per tenerlo in vita. Va al fiume, intreccia dei giunchi, impermeabilizza la cesta in modo che non sia invasa dall’acqua e poi vi pone dentro il bambino. Questo è un primo elemento che fa pensare ad un piano ben escogitato messo in atto dalla donna per salvare la vita di suo figlio e non all’esecuzione di una serie di gesti avventati, che invece l’avrebbero messo in pericolo di vita offrendogli forse minori possibilità di sopravvivere rispetto a quelle che già aveva se fosse stato tenuto in casa.
– “e lo mise nel canneto sulla riva del Fiume”; queste parole in effetti confutano l’immagine comune del cesto trasportato dal flusso del fiume (per altro lento data la conformazione del Nilo, ammesso che sia questo il corso d’acqua a cui il testo fa riferimento), piuttosto indicano che la donna avveduta pose il canestro con il bambino nel canneto, luogo in cui la figlia del Faraone era solita andare a fare il bagno (si veda v. 5). Questo secondo accorgimento non può essere casuale. Chissà quante volte la figlia del Faraone e le sue ancelle erano state viste fare il bagno in quel luogo, nel canneto in riva al fiume, e credo sia legittimo supporre che Iochebed abbia volutamente scelto di porre suo figlio lì, in modo che il cesto fosse visto e recuperato.
– “La sorella del bambino se ne stava a una certa distanza, per vedere quello che gli sarebbe successo”; il canestro non fu lasciato in balia dei flutti. Non si fa cenno a nessuna corsa forsennata di Miriam intenta a seguire l’imbarcazione di fortuna fino a destinazione. Il cesto fu posto lì, tra le canne sotto la stretta e attenta sorveglianza della sorella, curiosa di vedere quello che gli sarebbe successo. Anche in questo caso, non credo sia un azzardo immaginare che quella presenza fosse dovuta ad un atto di obbedienza della figlia ad un ordine specifico della madre avveduta, la cui ultima intenzione era quella di mandare a morire il figlioletto di pochi mesi. D’altronde è bene ricordare sempre che lo scopo di Iochebed era quello di salvare la vita del piccolo Mosè, non quello di metterla a repentaglio o allontanarlo da lei!
– “La figlia del faraone […] Vide il canestro”; il cesto fu posto in un luogo visibile. Non fu nascosto tra le canne per non essere trovato. Certamente era nel piano perfetto di Dio che questo fosse trovato, ma come la Bibbia insegna, Dio si serve molto più spesso di ciò che è palese per operare i suoi miracoli, che di eventi assolutamente soprannaturali. Il v. 6 mostra anche che Dio si serve delle emozioni umane per compiere il suo piano, infatti la principessa ebbe compassione per il bambino neonato e decise di prenderlo con sé.
– “Allora la sorella del bambino disse alla figlia del faraone: «Devo andare a chiamarti una balia tra le donne ebree che allatti questo bambino?» 8 La figlia del faraone le rispose: «Va’». E la fanciulla andò a chiamare la madre del bambino. 9 La figlia del faraone le disse: «Porta con te questo bambino, allattalo e io ti darò un salario». Quella donna prese il bambino e lo allattò.”; Miriam non resta in disparte a guardare. Dinanzi alla reazione della figlia di Faraone interviene (sarà stato anche quello un ordine di Iochebed?) e propone una soluzione che avrebbe mantenuto in vita il fratellino: farlo allattare dalla madre! Ci sarebbero moltissime altre applicazioni a questo passo che esulano dalla riflessione primaria su cui invece mi voglio concentrare, come l’avere la giusta iniziativa, l’essere propositivi nel presentare delle soluzioni (in questo caso geniale tra l’altro); e sarebbe anche interessante riflettere su come Dio benedice coloro che ripongono in lui la loro speranza: la madre, infatti, non solo riebbe suo figlio, benché per poco tempo e in qualità di levatrice e affidataria, ma ricevette perfino una retribuzione economica!
Eppure, quello che voglio considerare è il fatto che la fede che contraddistinse Iochebed, non si manifesta tanto nel porre suo figlio nella cesta affinché fosse ritrovato, perché questo gesto poteva essere in un certo senso studiato. Quell’azione potrebbe essere scaturita da settimane di programmazione (e di lavoro magari), potrebbe essere stata il compimento di un piano ben architettato in cui erano state attentamente considerate le variabili macroscopiche e che era stato finalizzato a, come già detto, “limitare i danni”.
La fede di Iochebed, e quella di ogni vero credente, va al di là dell’azione concreta, benché la tenga in considerazione, perché si proietta verso qualcosa che è al di fuori del proprio controllo. Il vero atto di fede di Iochebed non sta nel lasciare il figlio nel canneto, ma nella sua speranza (o certezza!) che una volta che questo sarebbe stato trovato, non sarebbe stato ucciso. Una perfetta programmazione può prevedere forse la maggior parte dei risultati, ma ha sempre un limite. Forse il fatto che Iochebed voleva che suo figlio venisse ritrovato rende la sua fede ancora più grande; cosa sarebbe successo se la figlia del faraone avesse deciso di osservare l’editto di suo padre e avesse portato il bimbo alle guardie affinché fosse ucciso? Certamente la possibilità era più che concreta, ma la fede di Iochebed non si lasciò frenare da questa paura. Così come Abraamo si dimostrò disposto e pronto ad uccidere suo figlio perché certo che il Signore lo avrebbe risuscitato, Iochebed confidò che Dio avrebbe preservato la vita del suo bambino e per questo fece in modo che fosse trovato.
Questa visione della storia non sminuisce il miracolo di Dio, ma anzi lo esalta perché mostra un lieto fine che gli uomini non possono prevedere. La storia di Iochebed e della cesta è un esempio di fede operosa, pragmatica; una fede che programma tutto quello che può programmare e che lascia a Dio quello che non può essere controllato. Una fede che rispecchia e dà un profondo senso alla definizione di Ebrei 11:1 “Or la fede è certezza di cose che si sperano, dimostrazione di realtà che non si vedono”. La donna disperata escogita un piano, certa che la sua speranza che suo figlio vivesse avrebbe trovato seguito e sicura che quello che lei non poteva vedere o sapere, si sarebbe realizzato.
Che Dio conceda anche a noi, perfino e soprattutto in questo periodo di prova che stiamo attraversando, una fede che dà il giusto spazio ai programmi e ai piani, che tiene conto delle variabili e tenta, nel possibile, di limitare i danni, ma che si affida a Dio per la loro realizzazione.
Giovanni Ulfo