Tra pochi giorni sarà Natale.
Il Natale, seppure per ragioni diverse, è una festa attesa da tutti. Vero è che alcuni non lo amano particolarmente, ma solo le pessime persone come Ebenezer Scrooge (il taccagno e rancoroso personaggio della famosa novella di C. Dickens), o un mostro come il Grinch possono odiarlo!
Anche quest’anno ci si è messi in moto per celebrare il 25 dicembre e le iniziative civili (tra sfilate e sagre della pizza) e religiose (con novene e processioni) si moltiplicano dappertutto. Si addobbano gli alberi (alcuni in modo molto creativo, come quello fatto nella mia scuola con, al posto delle classiche “palle”, le teste di studenti, insegnanti, collaboratori scolastici e amministrativi!). Si allestiscono presepi e altarini… si organizzano pranzi e cene aziendali.
Cosa può esserci di male in tutte queste cose? Assolutamente nulla!
Ma, da discredente, vorrei dire che se qualcuno pensa che tutto ciò sia bene, si sbaglia.
In primo luogo perché “il Bene” non è “l’assenza del male”. Fare il bene è qualcosa di molto più impegnativo, tanto da pensare quanto da compiere.
In secondo luogo perché, chi pensa che per fare il bene basti reiterare le tradizioni si sbaglia. Magari ci farà sentire bene perché, ripetere sempre gli stessi atti è molto rassicurante, ci dà un senso di stabilità, di familiarità, di calore. E, tutto sommato, c’è grande bisogno di tutto ciò!
Però queste cose hanno poco a che fare con Gesù Cristo e con il Vangelo. La gran parte delle celebrazioni e degli eventi natalizi possono essere considerati, al massimo, come manifestazioni di “cristianesimo culturale”, ma il cristianesimo culturale è il peggior nemico del Vangelo. Gesù, infatti, si scontrò duramente con una cultura tradizionalmente religiosa, ma profondamente alienata da Dio.
Nel 2010 ha fatto discutere parecchio l’uscita del libro La prima generazione incredula di Armando Matteo, recentemente ripubblicato in una nuova edizione (2017). La tesi di fondo del libro è che “i giovani cresciuti prima del 1980 hanno ricevuto, in seno alla famiglia e alla formazione scolastica un primo ed efficace annuncio della fede”, ovvero “l’alfabeto del Vangelo, salvo poi prenderne le distanze o diluirne la pratica”. L’autore continua col dire che coloro che sono venuti dopo non hanno avuto questo beneficio perché non ci sono state “nonne, mamme e maestre” che abbiano potuto conferire una “valida mistagogia [iniziazione] al mistero cristiano”. (pp. 21-22).
La causa della distanza dal Vangelo delle nuove generazioni, tanto dai suoi contenuti quanto dalle sue forme, sarebbe quindi il declino di questo “cristianesimo culturale” e la soluzione sarebbe il ripristino, seppure con forme nuove, di questa “cultura cristiana” oramai tramontata nelle coscienze.
Io contrasto fortemente questa idea. E la contrasto sia se viene proposta da Cattolici romani (veri o di comodo), sia se – anche in forme diverse – viene ventilata da ambienti protestanti/evangelici/riformati.
Contesto il presupposto che gli italiani delle passate generazioni siano stati davvero dei cristiani e dei credenti, perlomeno nel senso autentico del termine di “discepoli e seguaci di Cristo”, di depositari della fede in senso oggettivo, possessori della fede in senso soggettivo e di confessanti della medesima fede al cospetto del mondo. Infatti il “credere” in questo senso – e potrei dimostrare che questo è il senso in cui la Bibbia ne parla – non è un “valore culturale” trasmissibile.
E contesto anche che la soluzione sia quella del recupero delle tradizioni o della sostituzione dell’errore con la verità a livello mentale o perfino al livello molto più profondo mediante l’instaurazione di una “cultura cristiana” poiché, senza il rinnovamento spirituale che Gesù ha definito come il “nascere di nuovo”, non cambierà mai nulla davvero e solo individui rigenerati potranno aspirare a rigenerare una società.
Se quindi il problema è reale e davvero lo scetticismo o il Confusianesimo (per usare un termine inventato da Caparezza) è la nuova religione dei giovani, si può mai sperare che la risposta adeguata sia quella di moltiplicare i crocifissi nei luoghi pubblici, i presepi, gli altarini oppure di guardare con nostalgia alle celebrazioni tradizionali? Oppure dovremmo forse impegnarci a sostituire queste forme con altre più sane e appropriate?
Direi proprio di no, ad entrambe le domande.
Il Natale è la contemplazione dell’incarnazione del Figlio di Dio. Del Creatore che si fa creatura, del vero Dio che si fa vero uomo, dell’Infinito che si riduce alla lunghezza di qualche spanna, del Re dell’universo che – almeno nell’esteriore – si fa suddito e che non trova un palazzo o un trono ad accoglierlo, ma una mangiatoia. Queste cose bisogna comprenderle, e non basta comprenderle e rifletterci a fondo, perché bisogna crederci, crederci profondamente… e questo non può farsi tra l’acquisto di un gadget su Amazon e la partecipazione a un concerto o a un cenone, e nemmeno – consentitemelo – partecipando a una conferenza o a una mostra di arte cristiana.
Ma il più grave degli errori che potrebbe compiersi è quello di far diventare il Natale “la festa dei buoni sentimenti e delle buone intenzioni”… che poi il 6 gennaio porterà via con tutte le altre feste.
L’incarnazione, infatti, non è il proclama delle buone intenzioni di Dio e nemmeno l’annuncio, dal cielo, della sua benevolenza. Piuttosto è la dimostrazione del suo amore per noi uomini e la sua partecipazione alle nostre miserie. Chi può scandagliare la profondità di questo mistero?
Però, chi comprenderà davvero cosa sia il Natale verrà come posseduto dallo Spirito che coprì la vergine Maria, ma in modo nuovo e diverso, e non potrà più vivere per se stesso, ma per Colui che visse e morì affinché il peccato del mondo fosse tolto. Infatti, per quanto grande e meraviglioso sia il messaggio del Natale, esso è solo una tappa della storia della redenzione. Se non si andrà oltre la stalla di Betlemme, se non si giungerà al Calvario, se non si rimarrà a bocca aperta davanti alla pietra rimossa senza mano d’uomo dall’ingresso della tomba di Giuseppe d’Arimatea nella domenica della risurrezione e, poi, al monte dell’ascensione, tutto sarà vano.
Se, però, Gesù Cristo uomo viene accolto nel cuore mediante la fede, se egli diviene il Signore e il sovrano della vita, e se la sua parola viene presa come norma e regola di condotta, poco importa quale forma assumerà il nostro Natale, perché il Signore vive e vivrà per sempre in noi… sì, per 365 giorni all’anno.
Anzi, per l’eternità!
Buon Natale 2019.